Trasfusioni Sangue infetto responsabilità

Trasfusioni Sangue infetto responsabilità

La struttura ospedaliera NON è responsabile delle attività di tracciabilità interna del sangue – responsabilità del ministero

I pazienti che a seguito di operazioni o dopo essersi sottoposti a particolari terapie che comportavano l’utilizzo di sangue o emoderivati, hanno contratto e sviluppato epatiti B, C o AIDS devono imputare la responsabilità al Ministero della Salute. Per il risarcimento dei danni bisogna dimostrare che la contrazione dell’infezione da HbV, HcV o HiV sia imputabile ad un comportamento negligente e/o colposo del Ministero della Salute per un ritardo nella predisposizione di controlli e nell’adozione di misure preventive idonea ad impedire il contagio.                                                                    I soggetti che ritengono di aver contratto un’infezione a causa di un trattamento sanitario, hanno due possibilità:

1:-  richiedere l’indennizzo di cui alla l.n. 210/1992;

2.-,adire il Giudice Civile per ottenere il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.

La richiesta di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c.:

  1. a) i presupposti

Ebbene,occorre precisare che la responsabilità di cui trattasi è indubbiamente di tipo extracontrattuale, dunque disciplinata dall’art. 2043 c.c. , sicché per accertarla e dichiararla è fondamentale dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, tanto dell’elemento soggettivo (colpa o dolo) quanto di quelli oggettivi (la condotta e il nesso causale tra la condotta e l’evento verificatosi).Com’è noto, il nesso di causalità rappresenta il legame che intercorre fra l’antecedente fattuale e il suo effetto logico e, nei casi di cui si discute, esso involge il rapporto fra il trattamento con emoderivato e il virus contratto, al fine di stabilire se sussista effettivamente fra gli stessi un rapporto causa-effetto o una semplice relazione temporale.

 

  1. b) il nesso causale e la giurisprudenza

La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla questione, è intervenuta a Sezioni Unite chiarendo definitivamente che stante l’assenza di norme civili disciplinanti il rapporto causale, l’accertamento del detto nesso debba avvenire in applicazione dei criteri dettati dagli artt. 40 e 41 c.p., atteso che anche la responsabilità aquilina tragga origine da una condotta commissiva o omissiva. Sebbene, diversamente da quel che avviene nella responsabilità penale, il metodo di imputazione della responsabilità civile non è sempre costituito da una condotta colpevole, l’applicazione del rapporto di causalità di cui agli artt. 40 e 41 c.p. in ambito civilistico, consente l’individuazione della sequenza causale da esaminare e l’esame dei fattori che, seppur facenti parte della sequenza, non sono stati tali da determinare il verificarsi dell’evento lesivo. Di conseguenza, sulla scorta di quel che ha affermato la giurisprudenza di legittimità – se nel processo penale vige la regola della prova oltre il ragionevole dubbio – nel processo civile vige la regola del più probabile che non, in forza della quale la certezza probabilistica, va verificata riconducendo il grado di fondatezza all’ambito delle c.d. evidence and inference anglosassoni. Nello specifico, attraverso una prognosi postuma occorre eliminare mentalmente dalla sequenza causale tutti quei fattori che, in forza della c.d. regolarità causale, non possono aver generato l’evento nocivo verificatosi. Ciò precisato, in ossequio al principio generale di cui all’art. 2697 c.c.  grava sul danneggiato l’onere della prova del nesso causale tra l’attività o il fatto pericoloso (nella specie, l’emotrasfusione o il trattamento con emoderivato) e l’evento dannoso subito (rectius, epatite contratta o sviluppata immunodeficienza).

Il Ministero e l’irrilevanza della mancata conoscenza del virus all’epoca del contagio

Pertanto, una volta dimostrato che il danno patito sia riconducibile al trattamento con emoderivato o all’emotrasfusione ricevuta, spetta alla parte  citata comprovare l’assenza dell’elemento soggettivo (dolo o colpa) ovvero che l’evento non fosse voluto o comunque non prevedibile dall’agente. È notorio, infatti, che ci sono eventi straordinari, qualificabili come caso fortuito o forza maggiore, che escludono la colpa del soggetto agente e, dunque, contrastano con il principio previsto ex art. 2043 c.c., stante la mancanza del fondamentale requisito della colpevolezza (elemento soggettivo) e il verificarsi di un’interruzione del nesso di causalità. Cosicché, anche nei casi in cui risulti ampiamente confermata la riconducibilità della patologia epatica e dei pregiudizi sofferti dai pazienti al trattamento con emoderivato, le difese che il Ministero utilizza per contrastare l’imputabilità dell’evento lesivo ad una propria condotta (nella specie, di tipo omissivo) si fondano sul principio ad impossibilia nemo tenetur, in forza del quale nessuna responsabilità potrebbe addebitarsi allo stesso per i casi di contagio avvenuti prima della scoperta degli specifici virus, trattandosi di eventi non prevedibili e dovuti a causa di forza maggiore o a caso fortuito. Più chiaramente, ad avviso del Ministero della Salute dovrebbe escludersi la responsabilità del dicastero in ordine alla contrazione dei virus Hbv, HcV o HiV in epoche rispettivamente antecedenti al 1975, 1989 e 1985 (date di pubblicazione della scoperta dei virus di cui trattasi) non conoscendosi prima di tale data né i detti virus, né i relativi specifici metodi di rilevazione. Pertanto, sostiene il Ministero che, prima degli anni suindicati, non sarebbe stato possibile scongiurare il rischio di trasmissione, non essendo le infezioni virali ancora a loro ben note nella loro esatta caratterizzazione molecolare. Le suddette deduzioni del Ministero, che valutano il profilo causale con riguardo all’epoca in cui si è verificato l’evento, non sono coerenti con i principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite, secondo cui – benché la scienza medica e il Ministero della Salute non disponessero di specifiche conoscenze con riguardo ad ogni determinato virus – il ricorso ai c.d. metodi virucida, avrebbe reso inattivi anche i virus non ancora specificatamente conosciuti, scongiurando o quantomeno limitandone la diffusione. Invero, mediante le norme scientifiche e di laboratorio in vigore già dalla fine degli anni ’50 – fra cui ad esempio l’art. 1, L. n. 296/1958 che attribuiva al Ministero il dovere di provvedere alla salute pubblica e vigliare sui servizi sanitari espletati dalle amministrazioni autonome dello Stato o da altri enti pubblici, anche attraverso l’emanazione di istruzioni coordinate e obbligatorie per tutte le PP.AA. del settore sanitario – si potevano conoscere le modalità di trasmissione dei virus, indipendentemente dalla loro specifica tipizzazione, sulla base di un criterio di prevenzione che trae fondamento dal combinato disposto delle norme di cui agli artt. 32 Cost. e 2043 c.c. Conseguenzialmente, sul Dicastero già ben consapevole della sussistenza del rischio di trasmettere malattie epatiche per via ematica, gravava l’onere di vigilare ed esercitare un serrato controllo sulla sicurezza del sangue, adottando tutte le misure di prevenzione necessarie per impedire eventuali contagi.  (cfr. Cass. civ., sez. III, 31 gennaio 2019, n. 2790; id., 13 luglio 2018, n. 18520).            Ne segue che il nesso causale tra la somministrazione del sangue infetto in ambiente sanitario e la patologia insorta debba esser vagliato, non già sulla base delle conoscenze scientifiche del momento in cui venne effettuata la trasfusione (come erroneamente sostenuto dal Ministero), quanto piuttosto sulla base di quelle disponibili al momento dell’accertamento del nesso causale, rilevando all’uopo unicamente il collegamento naturalistico tra l’omissione (o l’azione) e l’evento dannoso.

Valutazioni conclusive

Così argomentando, inevitabilmente sorge in capo al Ministero della Salute una responsabilità per omissione dei controlli sulla raccolta e la distribuzione del sangue per uso terapeutico e, quindi, sull’idoneità dello stesso ad essere oggetto di trasfusione indipendentemente dall’anno in cui parte attrice sia stata sottoposta al trattamento sanitario, trattandosi di un dovere che (come su attestato) la P.A. era già tenuta ad adempiere sulla base delle conoscenze mediche e dei dati scientifici, acquisiti anche prima dell’anno in cui il virus fosse specificatamente identificato. In merito, giova richiamare il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte secondo cui: “In caso di patologie da infezioni da virus HbV, HIV e HCV, contratte a seguito di emotrasfusioni o di somministrazione di emoderivati, non sussistono eventi autonomi e diversi ma solo manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo, sicché anche prima dell’anno 1978, in cui il virus dell’epatite B fu definitivamente identificato in sede scientifica, con conseguente scoperta dei mezzi di prevedibilità delle relative infezioni, è configurabile la responsabilità del Ministero della salute per l’omissione dei controlli in materia di raccolta e distribuzione del sangue per uso terapeutico e sull’idoneità dello stesso ad essere oggetto di trasfusione, già consentiti dalle conoscenze mediche e dai dati scientifici del tempo.” (Cass. civ., Sez. Un., 4 febbraio 2016, n. 2232; Cass. civ., sez. III, 13 luglio 2018, n. 18520; id., Cass. civ., sez. III, 29 settembre 2017, n. 22832). Sulla scorta di tutto quanto dedotto, sembrerebbe apparentemente più agevole per i pazienti contagiati ottenere il riconoscimento dei danni patiti per l’omesso controllo del Ministero.

 

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